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LA PALA D'ALTARE E' DEL GAROFALO?
La pala lignea della Madonna e il Bambino con i Santi
Faustino e Giovita
nella Pieve omonima in territorio di Rubiera
di
Giorgio Notari*
Ho seguito il
dibattito apertosi nei mesi scorsi sull’attribuzione del quadro dei
santi protettori; senza pretesa di completezza e con l’augurio di nuove
ricerche, propongo l’esito delle mie investigazioni che, partite trent’anni
fa con la tesi di laurea sull’ordinamento giuridico della Pieve,
hanno sempre tenuto aperte diverse piste di ricerca. Quella del quadro è
una di queste.
-
Una storia da riscrivere
La grande pala lignea
ospitata nella Pieve dei Santi Faustino e Giovita di Rubiera è fatta
risalire ad ignoto emiliano della prima metà del XVI secolo; raffigura i
Santi Faustino e Giovita, protettori del paese, in contemplazione della
Vergine e del Bambino. Il paesaggio non è solo di sfondo ai
protagonisti: il fiume Secchia e il profilo della Pietra di Bismantova
indicano l’attenzione dell’autore ai destinatari dell’opera e al sito
ove si collocano gli astanti. Possiamo anche individuare il cosiddetto
“salame di Felina”, una medioevale torre d'avvistamento nota
ancora oggi nella montagna reggiana. L’importante cornice coeva ha
subito numerose cadute nella pellicola pittorica, specie alla base; la
cimasa è andata distrutta, ma da una riproduzione fotografica in bianco
e nero del 1924
ricaviamo che doveva essere costituita da una sorta di scalinata
rovesciata; gli spazi angolari sopra l’arco erano decorati da arabeschi
floreali, ora perduti. La base della cornice, pur pregiudicata, lascia
intravedere emblemi araldici non identificabili al momento. Anche sul
sito internet sanfaustinese si rinviene tale riproduzione, dove è
ben visibile una “memoria” secentesca, ora non più presente. La vulgata,
fino ad ora indiscussa, vuole che, nel 1699, l’arciprete di San
Faustino, Don Giovan Matteo Zanni, ultimo dei pievani in quanto nel 1704
si ebbe la “soppressione” della stessa, abbia acquistato dall’Ospitale
il quadro, collocandolo poi nell’abside della Pieve e successivamente
addossato, forse nel secolo scorso, al muro della navata destra dove ora
si trova. Se così fosse la committenza della pala andrebbe ricercata nei
Sacrati, patroni dell’Ospitale, istituzione laicale definita, nel
primo libro amministrativo del 1445, come “Ospitale de Madona
Sancta Maria dela Ca’ del ponte de Ribera”
e potrebbe avere qualche possibilità l’attribuzione dell’opera al
ferrarese Garofalo. Per la protezione offerta dalla pala
collocata in zona absidale, il sottostante affresco della Madonna con
Bambino d’impronta bizantina, secondo alcuni studiosi, si sarebbe
preservato, giungendo abbastanza integro sino a noi.
2.
L’attribuzione
Come detto sono il
Malagola e il Saccani a divulgare la notizia dell’acquisto di Don
Zanni dall’Ospitale e ad attribuire il dipinto al Garofalo
(Benvenuto Tisi, detto il Garofalo) del quale è ben nota
l’attività di affrescatore nella Chiesa dell’Ospitale a
partire dal 1542.
Studi stilistici portano tuttavia ad escludere tale paternità, pur
sempre riconoscendo l’alto valore dell’opera. In particolare Massimo
Pirondini, nella pubblicazione sulla pittura reggiana del
cinquecento, scrive: “occorrerà rammentare anche l’ignoto maestro
che fu l’autore della Madonna con i Santi Faustino e Giovita oggi a
San Faustino di Rubiera: artista quasi a metà fra Soncini e
Patarazzi, ma ad entrambi superiore, come dimostra l’alto livello
qualitativo di quest’opera, da collocarsi cronologicamente tra la
fine del secondo e gli inizi del terzo decennio del secolo. Si
tratta di un pittore con origini analoghe a quelle che furono di
Nicolò (Patarazzi): lo dimostra il michelangiolismo di fondo nella
vigoria delle figure, unito a spunti raffaelleschi, come avrebbe
potuto raccogliere chi, magari al seguito dello Zacchetti a Piacenza
(1517), avesse avuto agio di osservare da vicino la celebre Sacra
conversazione nella chiesa di S. Sisto”.
Quanto sostenuto dallo studioso è
condivisibile, solo che si abbia riguardo alla pala della “Madonna
in trono con i Santi Stefano ed Eleucadio”, conservata nella
Chiesa di S. Valentino di Castellarano (a.1517), questa sì opera di
sicura mano del Garofalo
e la cui committenza è da ricondursi ai ferraresi marchesi Sacrati,
feudatari di San Valentino e, del pari, patroni fin dal quattrocento
dell’Ospitale rubierese. Anche la recente mostra ferrarese non
annovera il nostro quadro.
E’ stata forse la vicinanza, sotto diversi
profili, tra i Sacrati, la famiglia marchionale estense che dominava
la nostra zona e il Garofalo, ad attribuire il quadro, ora
nella Pieve, al pittore molto attivo nell’ambito ferrarese.
Va tuttavia evidenziato come i libri amministrativi dell’Ospitale,
esaminati da Orianna Baracchi,
non riportino riferimenti alla committenza del quadro e al
successivo pagamento dello stesso.
Allo stato, tra l’altro, non siamo in grado di spiegare il perché
sia stato commissionato dall’Ospitale un quadro con
l’iconografia di Faustino e Giovita rappresentati nella valle del
Secchia: infatti se da un lato è vero che essi sono i titolari del
plebanato che ha per centro la Pieve, dall’altro sono note e
documentate le controversie tra l’Ospitale, geloso della
propria autonomia, e le Autorità ecclesiastiche rappresentate dal
Pievano e dal Vescovo locale, con sviluppi anche clamorosi.
3. Gli
inventari
La lettura degli inventari e delle
relazioni dei delegati vescovili in occasione delle Visite pastorali
o le risposte dei Parroci nei momenti di passaggio delle consegne,
offrono diversi spunti e ci fanno sapere che il quadro, era già
presente nella Pieve, ben prima dell’asserito acquisto di don Zanni
nel 1699. In un inventario riguardante la Pieve del 1623 si legge: “nella
prospectiva del Choro, v’è l’Incona (sic) de’ Santi Faustino e
Giovita di bellissima pittura”.
Anche un successivo inventario del 1647 conferma tale presenza. “in
Choro un’Ancona di detti Santi“;
annotazione che si ritrova anche in un inventario del 1657:
“l’Ancona…fatta sul legno ove sono dipinti la Beata Vergine ed
Puttino li SS. Titolari ed in cima all’Ancona vi è (illeggibile)
con un ornamento intorno dipinto sopra il legno”.
La visita pastorale voluta dal Vescovo Marliani nel 1663 riporta: “nel
Choro di dietro una Ancona co(n) l’immagine de’ Santi titolari”,
annotazione ulteriormente confermata laddove si legge: “Ha il
Choro dietro l’altar maggiore…con un Ancona nel mizzo (sic)
con la effige de’ Santi titolari … Vergine con coro d’anggiolletti
(sic) sopra”.
La nota è ripetuta nell’inventario redatto dall’arciprete Carlo
Pizzaccheri nel 1672: “ Nel Choro l’Ancona con la B.V. e li Santi
protettori Faustino e Giovitta (sic)”.
Un inventario del 1676 è conforme, poiché l’estensore scrive: “ ..l’Ancona
nella quale sono l’immagine de Santi la Beata Vergine col Figliolo e
cori d’Angioli”;
dello stesso tenore un inventario del 1691: “l’Ancona nella quale
sono le imagini (sic) de’ S(anti) Faustino e Giovita, la
Beata Vergine con Figlio e cori d’Angeli”.
Dunque don Zanni, al più, fece restaurare il quadro e la cornice, ma
non acquistò dall’Ospitale il quadro, che era già da tempo nella
chiesa di San Faustino.
* * *
E’ un
inventario del 1841 del prevosto don Antonio Beltrami che,
forse, ci permette di scoprire l’origine dell’attribuzione al
Garofalo. Così è scritto: “L’ancona di legno antica e
colorata a marmo rosso (?) e nella cornice indorata. Il
suo quadro è dipinto in (illeggibile) e rappresenta i
titolari di questa chiesa e i S(anti) M(artiri) Faustino e
Giovita e l’immagine della B. Vergine. Questo quadro si ritiene
di molto valore perché si stima del Garrofolo (sic), come
indica quel garrofano (sic) che è dipinto in fondo del
quadro”.L’attribuzione ottocentesca
è frutto dunque di una superficiale lettura dell’opera, ove non
è comunque rinvenibile un garofano, ma un prato dal quale
emergono diversi fiori ed erbe;
il Malagola ha acceduto acriticamente al giudizio di don
Beltrami, parroco peraltro molto attivo nel recupero della sua
chiesa: lo svarione tuttavia, a cascata, è arrivato fino ai
nostri giorni.
4. Alla
ricerca del committente
Il centro
di maggior potere fondiario del territorio, come noto, era
la Pieve che arriva, nel 1501, ad avere, al tempo della
commenda sotto il vescovo Giulio Cesare Cantelmo(i), la
disponibilità di oltre 844 biolche, in gran parte nel
rubierese,
segno di un controllo diffuso del territorio. Il processo di
acquisizione parte prima dell’anno mille ed è legato
all’evangelizzazione sviluppatasi tra l’VIII e X secolo da
parte dei benedettini che, con un piglio che possiamo
definire imprenditoriale, si posero l’obiettivo della
rinascita di questi luoghi,
riordinandoli e rendendoli produttivi; poco lontano di qui
sorse Nonantola, il grande cenobio dedicato a S. Silvestro.
Nel tempo, la Pieve sanfaustinese diventa “matrice” o
comunque referente, da un punto di vista ecclesiastico, di
altri edifici di culto, come la chiesa dei Santi Biagio e
Donnino “in castello”,
quella di Sant’Agata e quella dei Santi Fabiano e Sebastiano
a Fontana.
Anche queste chiese godono di “benefici”, terre in
particolare, che consentono il mantenimento dell’edificio e
degli addetti al culto, preti e chierici.
Avere dunque un quadro di livello che raffiguri i protettori
è passaggio obbligato per chi è investito delle funzioni
primaziali sulla Pieve e sul relativo territorio; forse è
proprio il vescovo Cantelmo che commissiona l’opera, così
suggellando la sua esistenza di funzionario al servizio del
Papa e valorizzando l’acquisizione di una residenza - quella
sanfaustinese – prestigiosa, anche se lontana dai centri del
potere romano. Siamo all’inizio del cinquecento; l’autore
del quadro, anche dopo la morte del vescovo Cantelmo (1503)
procede nella sua opera e la consegna al nuovo investito…
Entro il primo quarto del secolo, la pala è collocata e
suscita ammirazione. Sono supposizioni ma, come vedremo,
solo un uomo che aveva maturato una solida preparazione
teologica, vissuto i prodromi delle divisioni che sarebbero
poi sfociate nella riforma luterana e nel protestantesimo e
dalla larga disponibilità economica, poteva suggerire e
porre le basi per i “temi” di cui il quadro è portatore,
oltre ad individuare un artista di assoluto livello.
* * *
Particolare attenzione
dobbiamo porre alla cornice del quadro: non si tratta di un
banale e lezioso abbellimento, ma il manufatto amplifica
quanto rappresentato nella pala, facendone parte integrante,
con significati che arrivano a toccare le vette della
teologia.
Un
collegamento stilistico tra la nostra cornice e il
Garofalo è dato dall’opera di Lodovico Mazzolino
(Ferrara, 1480 ca-1528 ca) detto Sacra Famiglia tra i
Santi Girolamo e Giovanni Battista ( 1518 ca), ora alla
“Galleria Sabauda” di Torino; la cornice del quadro (100x94
cm) è certamente del Garofalo, e riprende diversi
elementi stilistici dell‘ornato della cornice sanfaustinese.
Il quadro che ci occupa potrebbe, ma le indagini dovranno
proseguire, essere nato proprio dalla collaborazione di
diversi artisti di area ferrarese; allo stato attuale
proporre nomi sarebbe azzardato.
5. Il culto dei due Santi
Per
entrare ulteriormente nel dipinto è necessario indagare
il culto di Faustino e Giovita, due Santi che hanno
avuto “fortuna” soprattutto nell’alto medioevo e, in
particolare, nel nord dell'Italia; basti solo ricordare
che almeno una chiesa o una cappella è stata eretta in
loro onore in ognuna delle diocesi dell’Emilia.
La leggenda risale al secolo IX e vuole che i due
giovani, di nobile famiglia, una volta abbracciato il
cristianesimo, non lo abbiano più abbandonato nonostante
“una serie incredibile di torture” subite un po’ in tutta Italia,
ma in particolare a Brescia, Roma e Napoli, per poi
essere decapitati nella città lombarda un 15 febbraio al
tempo dell’imperatore Adriano. Il racconto non è
attendibile, come già rilevò il P. Savio negli “Analecta
Bollandiana” nel 1896 in occasione della
pubblicazione della leggenda.
Anche se può sembrare irriverente va ricordato che
Giovita era probabilmente una donna, in quanto i più
antichi martirologi ne fanno seguire al nome l’attributo
di “virginis”,
connotazione tutta femminile. La vicenda storica subì
trasformazioni e adattamenti; in particolare va
sottolineato il 15 febbraio, data ancora oggi legata
alla memoria dei due martiri, che fu individuato ed
enfatizzato per i particolari legami con il mondo
romano. In tale occasione erano infatti festeggiati i “lupercali”,
una ricorrenza agro-pastorale d’antica origine
pagano/romana e dalla forte valenza iniziatica, fondata
com’era sulla simbolica uccisione e rinascita di due
giovani di nobile famiglia. Era il momento di passaggio
in cui finiva l’inverno e si approssimava la primavera e
con essa l’anno nuovo, secondo l’antica ripartizione in
dieci mesi.
L’ignoto autore della pala sanfaustinese, pur a distanza
di secoli, dimostra di essere a conoscenza dei tratti
salienti la leggenda, attribuendo ai due Santi il ruolo
di bonificatori, materiali e spirituali, della terra
rubierese. La leggenda fu infatti il veicolo di un
importante intervento in tutta la zona: prima con i
Longobardi e poi con i Franchi, specie attraverso nobili
famiglie che avevano giurisdizione sul territorio, i
benedettini ebbero una sorta di “mandato” diretto al
recupero di queste terre e, in pari tempo, una notevole
libertà e tutela nell’opera di catechizzazione di
popolazioni refrattarie al messaggio cristiano. Va
ricordato come un rappresentante di una di queste
famiglie, Rodolfo figlio di Unroch, nel 944 (o 945) si
vedrà confermati, a seguito dell’ormai famosa lite, i
propri diritti sulla “capella una que est ad onorem
sancti Faustini martiris Cristi constructa in
loco et fundo Erbaria cum casis et rebus
domui cultiles quamque et massariciis...” nei
confronti del vescovo reggiano Aribaldo:
siamo quindi di fronte a quella chiesa che sarebbe poi
diventata la pieve sanfaustinese. La leggenda deve il
suo diffondersi ai monaci benedettini che ne fecero un
uso, oggi diremmo “politico”, al fine di evangelizzare
genti che, specie nelle campagne, si erano dimostrate
restie, a recepire il messaggio cristiano, in quanto
profondamente legate a culti pagani e a pratiche
superstiziose.
7. Dentro il quadro
La
Pieve rubierese, in ogni caso, può vantare un’opera
di grande valore e di sicuro interesse, non solo
locale, come può ricavarsi dall’analisi del quadro.
I due Santi, in ginocchio, non sono rappresentati in
abiti militari, com’è dato riscontrare in una certa
iconografia bresciana,
ma in vesti clericali, come vuole il martirologio:
Faustino, sacerdote, è rivestito di una casula di
tipo ambrosiano, con il relativo manipolo, mentre
Giovita ha la dalmatica, paramento caratteristico
dei diaconi. Nulla dunque rimanda ad una difesa
militare della zona ma, anzi, la maniera prescelta
dall’autore è devozionale, seppure in una forma che
definiremmo “attiva” e non di generico pietismo. Il
sacerdote Faustino solleva verso la Madonna e il
Bambino il calice, segno del sacrificio eucaristico;
il diacono Giovita appoggia il braccio sinistro al
libro sacro, richiamo alla missione evangelizzatrice
che i due avrebbero operato nel territorio. Il
rimando ai passi del Vangelo ove Cristo invia i
discepoli, a coppie, alla missione è evidente (Mt.
10,2; Mc. 6,8): l’andare a due a due è segno
di comunione ed è l’avvio dell’evangelizzazione. E’
la vittoria su quel demone della divisione che non
consente di cogliere il messaggio d’amore di Cristo;
i due sono icona della Chiesa che prega: “Perché
dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in
mezzo a loro” (Mt. 18, 20). La palma che
i due protagonisti reggono e la pianeta rossa di
Faustino sono cifre del martirio che i giovani
ebbero a subire sotto l’imperatore Adriano nel II
secolo d.C.; la decapitazione per la fede cristiana
è ulteriormente resa dal tronco, reciso di fresco,
al limitare del fiume. Il paramento indossato di
Faustino si connota poi dal gallone centrale in cui
sono raffigurati episodi e simboli della passione di
Cristo. Il colore bianco-dorato della dalmatica di
Giovita riafferma lo splendore del culto divino; ma
il sacrifico per eccellenza è quello di Cristo,
efficacemente richiamato dal calice, dal piede
polilobato, che il pittore ha posto al centro della
composizione tra i Santi. Si noti poi la
corrispondenza fra il sacerdote Faustino, associato
al calice, e il diacono Giovita, che porta il libro,
nonché la posizione assegnata al primo rispetto al
secondo: il calice è centrale e più elevato rispetto
al libro sorretto dal diacono; è così riaffermata la
dimensione gerarchica, sia nei ruoli che nelle
fonti, della Chiesa cattolica. L’iconologia ci fa
dunque collocare l’ignoto artista nel pieno del
dibattito teologico sui Sacramenti e sulla Chiesa
introdotto dalla riforma proprio all’inizio del
’500; il committente e l’autore sono schierati a
favore del culto eucaristico, di quello mariano e
della centralità della Chiesa (“nulla salus sine
ecclesia”) esaltandone e rappresentandone gli
aspetti salienti.
* * *
Il
paesaggio è rigoglioso; il pittore pare così sancire
il positivo intervento in loco dei due Santi martiri
che la tradizione orale vuole transitati nella
campagna rubierese, tanto da aprire un vero e
proprio sentiero, come indica il terreno battuto fra
le erbe. Il calice richiama il vino della mensa
eucaristica e, nello stesso tempo, la fecondità
della terra che era intensamente coltivata anche a
vigneto e ricca di boschi, come ricorda fin dal X
secolo un documento riguardante il confinante
villaggio di Fontana.
I Santi sono letti e interpretati quali precursori e
mediatori del cristiano, come suggerisce l’albero
ricoperto di edera che, sulla destra del quadro,
collega la terra al cielo: essi vengono dalla
medesima pianura di chi li guarda e il loro esempio
è di sprone a coloro che vogliono raggiungere le
vette della santità. Si deve notare come il pittore
non abbia racchiuso i due effigiati in una stanza,
ma all’aperto, in quella campagna dalla quale
proviene la maggioranza degli astanti: un richiamo,
certamente voluto, alla “vicinanza” tra lo status
di fedele e la santità. Il tronco rinsecchito pare
rimandare al fico, “l’albero del bene del male”,
allusione al “primo peccato”;
l’edera, che nel medioevo assurge ad emblema
dell’immortalità dopo la morte, è un richiamo alla
Resurrezione di Cristo, nuovo Adamo. Anche il
sacrificio dei martiri e quello quotidiano di ogni
credente trasformano la terra e la rendono ubertosa,
un vero “Eden”. Due (in)flussi sembrano così
incrociarsi e moltiplicare benefici effetti
spirituali e materiali: il sangue effuso dai martiri
e quello del corso d’acqua, il Secchia. Ma, al di
sopra di tutto, anche della stessa ricchezza di doni
e di grazie profusi dai Santi sulla terra, vi è la
gioia della manifestazione celeste, resa, nella
parte superiore del quadro delimitato da un
semicerchio, dal tripudio d’angeli tra le nubi, ove
il divino Bambino si mostra, additando la Madre (“Sede
della Sapienza”), quale via per la visione
ultima e beatifica.
(Giugno 2009, riproduzione
riservata)
* Giorgio Notari (52
anni), sposato, ha due figli. Vive a Rubiera ed
esercita da oltre vent’anni la professione
forense a Reggio Emilia. Giornalista
pubblicista, ha al suo attivo diversi articoli e
saggi su temi di carattere storico e relativi
all’ambito formativo e famigliare. E’ presidente
della Commissione per l’arte sacra e i beni
culturali della Diocesi di Reggio
Emilia-Guastalla.
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13 Maggio 2009
- Seguito de "Sulla pala d'altare di San Faustino".
Quando si scrive
“Allo stato attuale delle conoscenze, questo non sarebbe
corretto”, non si vuole “chiudere ogni possibilità di dialogo”.
Anzi, si invitano quanti sono interessati a controllare quello
che è stato scritto e ad aggiungere (in modo documentato, così
da permettere altrettanto) idee e documenti nuovi. Non sono
elencate altre voci discordanti semplicemente perché non so se
ne esistano. Sono state lette bene le pagine 25 e 26 del libro
di Malagola? Non mi sembra, in quanto il “che”, alla fine della
nota “1” è stato letto con un accento che non c’è, quindi quel
“che” non è un “perché”. Inoltre il Romoli, trattando delle
vicende dell’Ospitale di Rubiera, doveva scrivere della pala
almeno fino al 1600. Se si ha la pazienza di leggere il “Regesto
documentario” da pag. 187 a pag. 199 del catalogo della mostra
“Garofalo. Pittore della Ferrara Estense” (a cura di Tatiana
Kustodieva e Mauro Lucco, Skira editore, Milano, 2008), tra
tutti i documenti e libri consultati, non si trova nulla che
colleghi la nostra pala al Garofalo. E’ documentata la pala con
la Madonna con Bambino e i Santi Eleucadio e Stefano, conservata
nella Pieve di San Valentino di Castellarano (vedi anche Il
prezioso dipinto del ‘500 a San Valentino, di Danilo Morini
e Giovanni Pio Palazzi, Pagg. 45-49 in Reggio Storia n.
119, anno XXX, n. 2, aprile – giugno 2008) e la sua attività
all’Ospitale di Rubiera. Siccome non si è trovato fino ad ora
nessun documento coevo alla pala, non rimane che chiedere il
parere ai critici dell’arte. Vittorio Sgarbi visitò la nostra
Pieve nel febbraio del 2000 e osservando la pala non la attribuì
al Garofalo ma ad un ignoto pittore che utilizzava gli stessi
stilemi del periodo. A questa visita era presente don Francesco.
Nell’aprile dell’anno scorso era mia intenzione mettermi in
contatto con i curatori della mostra sul Garofalo che si era
tenuta a Ferrara dal 05 aprile al 20 luglio e sottoporre loro la
pala di San Faustino, ne avevo parlato anche con Don Francesco,
ma gravi motivi famigliari me lo hanno impedito. In merito alla
“disinvoltura” con cui si attribuiscono i nomi di Faustino e
Giovita ai due personaggi maschili rappresentati nella pala, è
sufficiente conoscere quanto scrive l’Enciclopedia Cattolica,
(volume V, pag. 1063), aver letto le leggende sul loro martirio,
il ruolo che ha avuto il loro culto nella pratica religiosa e
spirituale benedettina, aver visitato la Basilica di Brescia,
aver visto il quadro che è conservato sopra la porta della
sagrestia del complesso della “Santa Gerusalemme” di Bologna, la
tela conservata (sic!) nell’oratorio della “Madonna della Vita”
a San Faustino e possedere i semplici rudimenti su gli “elementi
generici, specifici di gruppi di santi e peculiari”
dell’iconografia. L’iconografia consente di interpretare quello
che l’artista della pala di San Faustino voleva e vuole
trasmettere a tutti coloro che si fermano davanti ad essa per
meditare o pregare, siano essi ricchi o poveri, istruiti o
illetterati. E’ questa la cosa più importante della pala, non se
è stata dipinta da Benvenuto Tisi o da Domenico Becco.
San Martino in Rio, 13.05.2009 Cristian Ruozzi
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10 Maggio 2009 (Il Malagola ed il Garofalo.) -
Riferimento al documento del 10 aprile 2009 (sulla mancata
paternità alla Pala del Garofalo). Citare un coro di personaggi
orientati nella stessa direzione per arrivare a concludere di
autore ignoto la Pala in argomento, potrebbe sembrare un modo
piuttosto riduttivo, tendente a chiudere ogni possibilità di
dialogo. Inoltre, definire il Malagola dubbioso della propria
tesi al punto di chiedere aiuto al Romoli , risulta essere una
affermazione eccessiva e del tutto gratuita. Il Malagola, unico
citato per aver scritto e sostenuto l’origine e la paternità
della Pala in questione, riferendosi al Romoli ne esalta gli
studi e le richerche che questo Signore ebbe a fare su Rubiera e
quindi sulla corte Ospitale, ribadendo poi la propria tesi
dicendo che il Romoli non avrebbe potuto parlare della Pala in
discussione poiché, in quel tempo, la stessa
Pala si trovava già nella chiesa di S.Faustino.
Il
Malagola è sempre stato molto interessato alla chiesa di
S.Faustino, al punto che dobbiamo a lui se l’attuale facciata
non venne deturpata come prevedeva il progetto di
ristrutturazione da parte di Don Beltrami il quale, facendosi
forte di fare i lavori a proprie spese, aveva incaricato
l’architetto Costa a portare tutto il manufatto, interno ed
esterno, ad uno stile moderno. Quindi, è da ritenere che, per le
ricerche e le frequentazioni, il Malagola non sia poi così
lontano dalla realtà, come si vorrebbe far credere ( basta
citare l’ing Faccioli sovraintendente alle belle arti in Bologna
che poi curò la ristrutturazione della facciata della chiesa di
S.Faustino, come ora si può ammirare, e casa Prampolini dove
potè attingere informazioni circa la storia della chiesa in
argomento, avendo questi avuto un parroco proprio in S.Faustino
tra il 1700 ed il 1800). Ad ogni modo, alla luce di quanto
detto, ciascuno è libero di pensare come meglio crede ma ritengo
non accettabile utilizzare il termine “Ignoto” per dire “Fine”
al dibattito. Una curiosità che richiederebbe un chiarimento:
coloro che definiscono di autore ignoto la Pala nella chiesa di
S. Faustino, come fanno poi a dire , con tanta disinvoltura,
che i personaggi di questa Pala sono i Santi Faustino e
Giovita? Ed è qui che la tesi del Malagola ha un senso in
quanto, al tempo in cui il Garofalo operava nella Corte Ospitale
chiamato dai Sacrati, S. Faustino era molto importante infatti,
l’arcipretura era in S.Faustino fino a Don Zanni quindi, a
Rubiera. A questo punto non sarebbe poi del tutto inverosimile
pensare che i Sacrati abbiano ordinato una Pala in onore dei
Santi Patroni della chiesa allora dominante. (L.P.)
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10 aprile 2009 (sulla mancata paternità alla Pala del Garofalo)
- Antonio Ferraboschi mi ha informato della sorpresa destata per non
aver attribuito al pittore Benvenuto Tisi (1481?- 1559)
la “pala d’altare, raffigurante i SS. Faustino e Giovita (I metà
del secolo XVI)”,
nel pieghevole della Pieve. Allo stato attuale delle conoscenze, questo
non sarebbe stato corretto. Gli autori che attribuiscono al “Garofalo”
la “Madonna con i Santi Faustino e Giovita” sono Carlo Malagola
(1855-1910) e mons. Giovanni Saccani (1852-1930). Bisognerebbe
verificare se mons. Pietro Ferraboschi (1916-2001) ne abbia scritto in
Le origini del “Fundus Erbaria”. Rinvenuta una villa romana,
in La Libertà del 02.05.1954 o in altri scritti. Malagola scrive che “…
il bellissimo quadro di Benvenuto Tisi, detto il Garofalo,
rappresentante S. Faustino e Giovita, che aveva già decorato la chiesa
dell’Ospitale presso Rubiera, ...” era stato acquistato da “l’arciprete
Gian Matteo Zanni” senza citare la fonte, seppur avesse avuto la
possibilità di accedere alla documentazione conservata nell’archivio
parrocchiale da cui aveva attinto per la stesura del libro. Anzi, non
sembra essere del tutto
convinto a tal punto che nella nota “1” scrive che la sua fonte per le
notizie relative al Garofalo e alla sua attività nella chiesa
dell’Ospitale, è il manoscritto di Rodolfo Romoli (consegnato
successivamente al comune di Rubiera il 28.02.1888) e nelle “memorie del
Romoli non è indicato il quadro sopra menzionato, che fin dal XVII
secolo trovavasi a San Faustino”. (Carlo Malagola, Memorie dell’antica
pieve di S. Faustino e Giovita presso Rubiera, stampato da Vincenzo e
nipoti, Modena, 1881, pagine 25 e 26). Saccani si limita a riportare
quanto scritto dal Malagola. (Giovanni Saccani, La pieve dei SS.
Faustino e Giovita di Rubbiera.
Note storiche. Cooperativa fra Lavoranti Tipografi, Reggio Emilia, 1924,
pag. 19). Massimo
Pirondini attribuisce ad “ignoto emiliano della prima metà del XVI
secolo, la Madonna con i
Santi Faustino e Giovita” (pag. 37), specificando che “l’ignoto maestro
(era un) artista quasi a
metà strada fra Soncini e Patarazzi, ma ad entrambi
superiore, come dimostra l’alto livello
qualitativo di quest’opera” (pag. 35). (Massimo Pirondini ed Elio
Monducci, La pittura del Cinquecento a Reggio Emilia, Federico Motta
editore, Milano, 1985). Orianna Baracchi nel capitolo Inediti di
costume, arte e storia, nel tentativo di individuare l’autore di una
pala d’altare conservata nella Chiesa dell’Ospitale, scrive: “E’ certo
comunque che non si trattava d’una ancona del Garofalo sia perché
un’opera giovanile dello stesso pittore non poteva definirsi, nel 1543,
ancona vecchia, sia
perché è assurdo pensare che un modesto pittore-restauratore come
Rinaldo Mazzoli osasse
restaurare un
quadro del notissimo Benvenuto e, per di più, in sua presenza,
considerato che proprio nello stesso periodo il Garofalo era attivo
all’Ospedale” (pag. 146). E’ interessante constatare, nel
proseguo del saggio, la carenza di documenti dal 1647 al 1706 che citano
quella antica ancona che era conservata nella chiesa. Questo periodo
interessa per la storia della Pieve di San Faustino e per la pala
d’altare rappresentante la Madonna con i Santi Faustino e Giovita, ma
Orianna Baracchi ritiene di ritrovare l’antica ancona presente nella
chiesa dell’Ospitale nel 1758 (pag. 147). Le fonti da lei utilizzate
sono citate a pag. 184. (Orianna Baracchi e Francesco
Milani L’ospitale di Rubiera. I Sacrati: Carità, Storia e Arte, Artioli
Editore, Modena, 1987).Nel
1977 la pala e l’ancona vengono restaurate. Del restauro se ne occupano
la ditta Zamboni e Melloni per la “parte pittorica” e il prof.
Renato Boni per la
“parte lignea”. Zamboni
e Melloni scrivono che “La tavola presentava varie e vaste
ridipinture che debordavano ampiamente sulla stesura pittorica
originaria. (…) La rimozione delle ridipinture è stata effettuata con
solventi vaporizzanti; l’eliminazione delle stuccature (anch’esse
debordanti sul colore originario) e delle ridipinture antiche
(ottocentesche), ha richiesto l’ausilio del bisturi”. Il prof. Boni
scrive che il restauro dell’ancona “ha messo in luce una meravigliosa
decorazione rinascimentale a tempera, sicuramente eseguita tra il 1510 e
il 1520 come risulta dalla data inserita nell’ancona e purtroppo
mancante delle ultime lettere” (I tesori della Pieve (n. 4). Pala con
ancona, dei nostri protettori. Descrizione del restauro 1977. In “La
Pieve” n. 7, marzo 1978, pag. 2). In merito al restauro del 1977, mi
chiedo se il braccio destro della Madonna, fosse originariamente dipinto
come lo vediamo, perché appare molto innaturale, plastico, mentre
risulterebbe appropriato se si considerasse con il colore della manica
del vestito. Infine, Giorgio Notari, nell’articolo Torna a splendere la
pala della Madonna con Bambino e i Santi Faustino e Giovita, riprendendo
il libro di Mussini e Moducci, ritiene che non si possa attribuire il
dipinto al Garofalo (Mille Anni, n. 4, Anno XIV – 2001, pag. 11). Ho
considerato tutto questo per arrivare a scrivere sulla bozza “Una pala
d’altare, raffigurante i SS. Faustino e Giovita di autore ignoto (I metà
sec. XVI)”, poi pubblicato sul pieghevole “Una pala d’altare,
raffigurante i SS. Faustino e Giovita (I metà del sec. XVI)”.
(San Martino in Rio, 08.04.2009) Cristian
Ruozzi
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6 aprile 2009 (sulla scritta nella cornice della Pala del
Garofalo) - Effettivamente, alcune
lettere rimaste sull'attuale cornice della "Pala" in argomento
messe a confronto con la scritta
della foto in bianco/nero, confermano l'autenticità e la
provenienza della stessa Pala.
Considerazioni: Alla luce di quanto detto, poichè quel tratto di
cornice risulterebbe essere originale, perchè nei vari restauri non
si è ristrutturata anche la scritta che fece mettere l'acquirente Don
Zanni, lasciando invece al tempo cancellarne la memoria? A questo punto,
non era forse meglio togliere completamente questa scritta? Può darsi
che l'intenzione fosse proprio quest'ultima. Se così fosse, l'intervento
non fu proprio dei migliori per non pensare che in futuro qualche
curioso, assistito dal progresso tecnologico, avrebbe scoperto quelle
poche tracce, sufficienti per ricondurre al testo originale. (LP)
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25
febbraio 2009 (sul quadro del Garofalo) - Pensandoci bene, su
quanto ha detto DFA ci
può essere del vero. Infatti, quando don Zanni acquistò il quadro del
Garofalo, alla fine del
1600, detto quadro aveva già un' età di circa 200 anni per cui è
plausibile che fosse malmesso
con la cornice. Quindi, è probabile che don Zanni l'abbia fatto
restaurare dandogli , nel contempo, un tocco personale per passare alla
storia come il benefattore di tale importante acquisto. Lo dimostra il
fatto di aver inciso sulla cornice quella dicitura ovale riportata anche
dal Malagola (D.O.M - GENITRICI MARIAE - SS. FAUSTINO ET IOVITAE - IO,
MATTHAEUS ZANNI - ARCHIPRESBITER - 1699), che non ha niente a che fare
con l'originale. Se ciò è vero, come lo dimostra la fotografia in
bianco/nero, ben hanno fatto successivamente a riportare la cornice
all'originale e, ciò che di meritevole ha fatto don Zanni deve rimanere
descritto nell'archivio parrocchiale. Si potrebbe ,
ora, ritenere che l'attuale versione, nonostante le varie
ristrutturazioni subite, sia quella che si avvicina di più all'originale
rispetto a quella che si vede nella foto bianco/nera. (LP)
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23
febbraio 2009 (sul quadro del Garofalo) - Non so di preciso,
perchè non ero presente
quando è stato fatto il primo restauro. Io l'ho sempre visto come è
adesso. Provo soltanto a
ipotizzare che: 1) - La cornice lignea è la stessa. 2) - E' cambiata la
decorazione perchè quando si fa' un restauro si tolgono tutti gli
interventi di tinteggio o decorazione per recuperare l'originale. Così
come è stato fatto agli affreschi di S. Agata.
Ai quadri restaurati di
Fontana e
anche a quelli di Cerrè Marabino solo per citarne alcuni. (DFA)
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17 Novembre 2008 (sul quadro del Garofalo) -
L'insieme dei
dipinti del Garofalo che ho potuto visionare e che tra l'altro sono
bellissimi, li ho osservati con attenzione e secondo me, guardando lo
sfondo di quasi tutti i dipinti, ho trovato una linea comune con il
dipinto di S. Faustino. Perciò direi che il dipinto di S. Faustino è
vicinissimo allo stile del Garofalo. Questo il mio modesto e semplice
parere. (TP)
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20 ottobre 2008 (sul quadro del Garofalo) - Navigando
per caso sul sito di San Faustino ho notato che, nella sintesi della
storia sulla chiesa in argomento, è stata messa in discussione la
paternità riguardante il quadro attribuito al Garofalo. Se esiste una
verità diversa da quel che risulta dagli scritti del prof. Malagola, lo
si dica chiaramente e si pubblichi il o i documenti. In caso contrario e
fino a nuovi riscontri rimangono valide le attribuzioni fatte al quadro
dal prof. Malagola. (LP)
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